Alberto Burri è stato un grande sperimentatore della materia pittorica. È riuscito lungo anni di lavoro artistico a far sì che il materiale delle opere d’arte comunicasse qualcosa all’osservatore al di là della rappresentazione. Ora non è valida solo la domanda: “Che cosa rappresenta?”, ma anche: “Il materiale che cosa mi racconta?”.
Burri ha vissuto a Los Angeles, e lì ha osservato le fessurazioni della terra riarsa dal sole. Così nascono i primi cretti a partire dai primi anni Settanta e sino al 1976. La pittura viene applicata su superfici di cellolex e, dopo l’essiccatura che fa emergere le crepe, vengono applicati numerosi strati di collante in modo che la superficie pittorica resti integra e non si sfaldi.
Le opere di Burri ci costringono a fare sempre un passaggio tra la materia del quadro e la materia dei nostri sentimenti; una domanda che possiamo porci di fronte a un cretto è: “Quando mi sono sentito/a così?”, “Quando sono stato/a così fragile?”. Sentirsi nel punto di rottura, ma avere ancora lì tutti i pezzi. Non sentirsi distrutti, ma fragili, coscienti del fatto che qualcosa dentro di noi si è rotto: siamo ancora interi, ma la spaccatura ci rende vulnerabili. Forse è proprio in quel momento che siamo più veri. Sono quei momenti in cui sappiamo dirci la verità di noi stessi, perché la ferita palesa ciò che credevamo valesse la pena nascondere. Sentirsi come la terra riarsa dal sole e bisognosa dell’acqua: fragile, ma allo stesso tempo, appena arriverà la prima pioggia, capace di produrre fiori ed erba senza che nessuno sappia come. Per questo il cretto è divenuta l’immagine più adeguata per rappresentare la riflessione di Luciano Manicardi sulla fragilità.
I cretti ricordano anche un ulteriore riferimento alla pittura: i quadri antichi, in alcuni casi, presentano delle fessurazioni dovute alle condizioni climatiche in cui si sono ritrovati nel corso del tempo. La superficie pittorica risponde a questi cambiamenti e in qualche modo li testimonia. Anche in questo caso il lavoro di Burri ci pone delle domande: non è poi vero che quando osserviamo un quadro antico ne apprezziamo la bellezza anche grazie ai segni che il tempo le ha lasciato? Questo non dovrebbe valere anche per l’opera d’arte che è ognuno di noi? I segni, le ferite, che le esperienze e le relazioni ci lasciano, non segnano anche l’opportunità di una nuova bellezza se siamo capaci di leggerle con cura?
La fragilità del cretto, paradossalmente, si è fatta cura quando Burri ha applicato questa forma alle macerie della città di Gibellina distrutta del terremoto del Belice nel 1968. Burri trasforma le macerie della città, che erano un problema da smaltire, in una opportunità di grandiosa bellezza. Ricostruisce l’assetto delle strade del paese attraverso grandi blocchi di cemento bianco. Un bianco irreale, accecante al sole della Sicilia. Una fragilità che non si nasconde, ma che diviene balsamo per una ferita nella terra e nel vissuto delle persone.
Per Burri la fragilità non è perdita, ma possibilità di cura e addirittura di perturbante bellezza.