Il Padre nostro è una preghiera del compromesso, è un’orazione di impegno anche politico nel mondo, non è una preghiera intimista. Se io recito il Padre nostro, devo pregare per il pane di tutti, quelli che mi sono vicini e quelli che non lo sono. Recitare il Padre nostro mi rende responsabile circa lo stato del mondo. Nelle comunità di Emmaus, fondate dall’abbé Pierre, a tavola, si recita questa orazione:
Signore, aiutaci a cercare il pane per coloro che hanno fame e cercare la fame per coloro che hanno il pane.
Cercare il pane per quelli che hanno fame… Cercare ciò che è essenziale per la vita, materiale e spirituale. Cercare la fame per quelli che hanno il pane, per quelli che sono soddisfatti, che vivono sotto la loro campana di vetro dimenticandosi degli altri, per quelli che potevano fare qualcosa e non la fanno, per quelli che non hanno mai pensato al Padre nostro come una preghiera che ci spinge verso la fraternità, necessariamente.
Il pane è il simbolo di questa fraternità. Non è soltanto il risultato della fraternità, ma deve provocarla, reinventarla.
Esiste una tradizione (in verità, uno strumento spirituale) che è caduta in disuso, e che sarebbe importante riscoprire: si tratta del digiuno. Viviamo triturati nella digestione che il mondo fa di noi stessi. Presto l’essere viene relegato e sostituito dalla corsa all’avere. Corriamo da un lato all’altro, come ostaggi e strumenti, più che autonomi e creativi.
Ebbene, il digiuno (ad esempio, mangiare meno o evitare il superfluo, consumare meno, criticare meno, eccetera) corrisponde a un atto spirituale, perché allarga il campo della nostra libertà.
Senza rendercene conto, sono molte le correnti che ci imprigionano e le dipendenze che diminuiscono la nostra capacità di tessere pratiche fraterne! Il digiuno, con l’adottare uno stile più frugale, crea nuove disponibilità, rende possibile un miglior esercizio di discernimento, riesce anche a migliorare il senso dell’umore… e ci predispone alla solidale condivisione con i più poveri.
Noi preghiamo: “Il nostro pane quotidiano”, quotidiano… Quando il popolo abbandonò l’Egitto e cominciò il suo cammino nel deserto, durante quarant’anni, fino al monte Sinai, riceveva tutti i giorni una porzione di pane che era la manna, ma ne riceveva soltanto la quantità necessaria per quel giorno.
Quando camminiamo, non possiamo procedere con troppi pesi, altrimenti non arriveremo lontano. Il viaggiatore o il pellegrino devono accettare di fare l’esperienza di vivere di ciò che è quotidiano, di ogni giorno.
E questo è vivere di Dio. Ogni giorno abbiamo Dio. E, perciò, non possiamo fare come l’uomo della parabola, che riempie i suoi magazzini di pane e poi dice: “Adesso, anima mia, hai i magazzini pieni, riposa pure”, riposa a volontà. Il Signore dice: “Insensato, in quel giorno il Signore verrà a cercare la tua anima e cosa possederai tu dinanzi a Dio?” (cf. Lc 12,16-21).
Se vogliamo essere nomadi di Dio, se vogliamo vivere di lui, dovremo creare una libertà molto grande rispetto alle cose. La verità è che queste ci imprigionano.
Ciò che possediamo, presto possiede noi stessi. Per il cristiano, uno stile di vita frugale testimonia meglio di mille parole la fede in Dio.
Il vangelo ci insegna non certo ad accumulare, ma a moltiplicare. Gesù ci rivela le possibilità di vita che un unico pane nasconde. Con un unico pane possiamo fare molte cose, se impariamo l’arte di moltiplicare la vita. Moltiplicare la generosità, la solidarietà, la tenerezza, la capacità di soffrire con gli altri e di mettersi nei loro panni…
J. Tolentino Mendonça, Padre nostro che sei in terra (2013).