Nell’ora più spoglia della sua vita, il Cristo ha raccontato il perdono, come dono che eccede il limite della nostra inconsapevolezza; ha promesso la compagnia della vita; ha affidato alla chiesa la sua memoria di amore; ha interrogato i nostri abbandoni patiti e agiti; ha dato voce al suo desiderio per dissetare la sua e la nostra sete; ha annunciato il compimento che trasfigura le nostre inconcludenze; ha aperto le braccia alla fiducia di chi si affida, “saldo nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18).
Le prime tre parole di Gesù in croce – “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”, “Oggi sarai con me in paradiso”, “Donna, ecco tuo figlio” – suonano come tracce di una luce e di un senso possibile in mezzo alla sofferenza: sono parole che presuppongono una presenza, la prossimità di un altro al quale il Cristo può rivolgere il suo sguardo e le sue ultime sillabe strozzate.
Poi sembra che venga meno il conforto di una presenza, e la quarta e la quinta parola – “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, “Ho sete!” – si levano come espressione del dolore, dell’assenza, della mancanza, del vuoto, del deserto, del bisogno avvertiti nell’uomo interiore e nel suo corpo.
Le ultime due parole – “È compiuto”, “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” – manifestano il Cristo Signore della vita e della morte, che entra nella morte a occhi aperti, non come succube degli eventi, ma con la libertà e la fiducia che nascono dall’amore.
Così il Crocifisso ci consegna il suo testamento, simile a un cammino settiforme tracciato dalla bontà e dall’umanità di Dio, cioè dal suo amore per gli uomini (cf. Tt 3,4), che “ci insegna a vivere in questo mondo” (Tt 2,12).
Allora, se è vero che né il sole né la morte si possono guardare in faccia a lungo, ascoltare e riascoltare queste frasi uscite dalla bocca di Cristo consente all’uomo di mettere parole fra sé e la morte, fra sé e la forza di annientamento del dolore e del male, per rinnovare un dialogo di vita fra sé e sé, fra sé e Dio, fra sé e gli altri uomini mortali.
Frasi, parole, testamento di un morente, che ci insegna a cantare la vita…
Il testamento di Gesù in croce si condensa in sette frasi incisive, fulminee per brevità, concisione e intensità, ma con un elevato peso specifico, un nucleo incandescente. Di fronte a esse potremmo fare nostra l’ammirata esclamazione di Agostino:
Tu avevi trafitto il nostro cuore con le frecce del tuo amore
(cf. Sal 10,3; Pr 7,23) e noi portavamo le tue parole conficcate
nelle nostre viscere (Confessioni IX,2,3).
La forza di quelle parole di vita, pronunciate sulla soglia della morte, genera in chi le ascolta il desiderio di custodirle nel proprio grembo (gestare verba), come una gestante porta in sé l’inizio e la promessa di una vita, nascosta nelle sue viscere.
In effetti, quelle ultime sette parole, quelle parole di un momento estremo, hanno la potenza di penetrazione di una freccia acuminata, che ci colpisce nel nostro punto più sensibile.
Emanuele Borsotti, Nudità della Parola. Le sette parole di Gesù in croce (2018).